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Cenni storici sullo street food
Premessa
La nostra è la storia di una cucina ben radicata nella sua tradizione, ma anche vitale nella continua e raffinata ricerca dei prodotti che ogni stagione ci offre.
Proponiamo ricette di un passato più o meno remoto, ne proponiamo altre di un passato prossimo ancora a memoria d'uomo e ne proponiamo di un presente che, pur ispirandosi alle tradizioni, crea piatti di una "nuova" cucina realizzata sempre sulle risorse dei luoghi, dalla natura dei quali attingere ingredienti di assoluta genuinità e freschezza.
La cucina veneta rivela così l'incomparabile ricchezza di quei "tesori" del suo meraviglioso paesaggio, di coste e lagune, di pianure irrigue, di colline festonate di vigneti baciati dal sole e di pendii d'alto piano profumati d'erbe e bacche succose.
Luoghi immersi nelle profondità tonali dei verdi e degli azzurri, immagini immortali che la nostra gente per intuizione amorosa ha saputo trasformare in sapori attingibili.
Antica Grecia e Roma
Lo Street food o cibo di strada parte da lontano, si conoscono infatti i “baracchini” dell’Antica Grecia e passando poi dai Romani a tutte le altre civiltà susseguitesi nei tempi fino ai giorni nostri con il carattere di cultura popolare.
È proprio per questa sua caratteristica, che il cibo di strada, ci permette di raccontare un territorio.
Questo è il nostro concept, vogliamo raccontare la grande e millenaria cultura gastronomica Veneta.
La Serenissima Repubblica Veneziana
Per fare questo non possiamo non partire dalla illustre storia culinaria della Serenissima Repubblica Veneziana, la grande madre dei veneti, l’orgogliosa esperienza democratica più longeva del mondo occidentale. La Serenissima è nata il 25 marzo del 421 e terminata il 15 maggio 1797 (1.376 anni di Repubblica e Dogato eletto dal popolo).
Da secoli quindi il Popolo Veneto, generalmente sobrio ma gaio, rimaneva fedele alle sue tradizioni culinarie ed oneste tendenze goderecce, che si riassumono in quelle riunioni gastronomiche più rumorose che sostanziali chiamate “garangheli”, più o meno quello che ai giorni nostri chiamiamo “happy hour”.
A tal proposito diceva Pietro Gaspare Moro-Lin nel 1841:
«Capitale peccato dei veneziani è la ghiottoneria; ma è una ghiottoneria chiacchierona e viva e ben dissimigliante dalla pesante laboriosa digestione di parecchi stranieri. Due bicchieri di vino, un pane e un qualunque companatico, sono generatori di una ebbrezza espansiva e scherzosa.»
Questa affermazione sembra proprio descrivere la consuetudine dei veneziani di sorseggiare qualche buon bicchiere di vino accompagnato dai famosi cicchetti, (che significa piccola quantità).
Lo Spritz
Nel Trecento e nel Quattrocento il vino veniva molto spesso annacquato per ordine del governo, che prescriveva i gradi di annacquamento e modificava le tariffe daziarie secondo che l’oste vendesse vino puro o “vino di prima acqua… “. Da questa consuetudine perdurata poi nei secoli, durante l’occupazione austriaca nacque a Venezia lo “spritz” ossia un termine di derivazione tedesca che indicava una “spruzzata” di vino nel bicchiere contenente acqua. Successivamente, in tempi più moderni, oltre ad acqua e vino venne aggiunto, per aumentarne gusto e colore, anche una piccola quantità di Aperol piuttosto che Campari o Cynar.
Le «Furatole»
«Chiamasi tuttora furatole – scrive il Tassini nel 1'800 – alcune bottegucce simili a quelle dei pizzicagnoli, ove vendesi pesce fritto e altri camangiari (cicchetti, spuncioti, scartossi), ad uso della poveraglia»
Il vocabolo “furatola” deriva da foro, essendo tali bottegucce piccoli fori o stanzini al pian terreno degli edifici affacciate verso l’esterno degli stessi. Nel dialetto veneto contemporaneo si potrebbero definire questi locali come: “busi” o “busigattoli” ossia piccoli, minuti.
I «Frittolini»
«La grandiosità monumentale delle sue giallissime polente, la perfezione cui egli sapeva giungere nella frittura del pesce, la proprietà del locale, l’accogliente premura del padrone facevano si che alle sue rozze ma pulite panche accorressero tal volta, oltre all’ordinaria clientela di popolo, qualche gentiluomo e qualche dama, in vena di mangiare bene»
Così viene descritto un certo Pozzo, che teneva una bottega di “frittolin” dalle parti di Ponte san Grisostomo a Venezia dal grande Elio Zorzi nel suo libro “Osterie Veneziane”. E aggiunge:
«Nulla in ciò di strano, o di stupefacente, per gli abituali clienti del fritolin. Non v’è stato forse paese nel quale i rapporti tra le classi sociali, rigidamente definiti da una inflessibile legge gerarchica, siano stati con maggior eleganza che a Venezia lubrificati dall’indole bonaria e comunicativa delle persone.»
La cucina veneziana preferisce generalmente due forme di cottura: l’arrostimento sulla graticola o “graela” e la frittura in olio. In fatto di frittura, la specialità veneziana consiste nell’arte del friggere, ed in quest’arte non vi era al mondo chi superasse i frittolini.
Il «Bàcaro»
Tra le osterie popolari un nuovo elemento, creato nell’ottocento, ha preso a Venezia un posto predominante. Il “Bacàro”.
La parola “bàcaro” deriva dall’estro di un vecchio gondoliere, campione di remi, che entrato in una nuova osteria appena avviata assaggiò il vino del nuovo avventore con quell’aria di importanza che in questa occasione sogliono assumere gli intenditori; bevette un sorso breve, lo biascicò due o tre volte, raccogliendo tutte le sue facoltà sensorie nel palato; poi emise un grugnito di approvazione, vuotò il bicchiere fino all’ultima goccia, schioccò la lingua, ed esclamò:
«Bon! Bon! Questo xe proprio un vin… un vin de bàcaro!»
Questa parola “bàcaro” egli l’aveva coniata così, al momento, la parole piacque, si diffuse e rimase.
L’espressione era stata probabilmente inspirata dalla parola veneziana “bàcara”, che significa brigatella di persone che fanno strepito o sconcio rumore; far “bàcara” significa divertirsi mangiando in compagnia, allegria smoderata.
Ecco che i “bàcari” divennero quindi quei locali di aggregazione dove bere del buon vino, mangiare e conversare in allegria.
Nota: Gli attuali pub, birrerie, enoteche, ecc. in cui si incontrano i giovani contemporanei, non hanno nulla di nuovo rispetto ai “bàcari” veneziani dell’800. A dimostrazione dello spessore di cultura popolare espresso dalla Serenissima.
Questo è lo spirito di Shily Streetfood: ottimo vino, buona birra, cucina tradizionale semplice e genuina, sano divertimento.